Di fronte ai profughi dal Mediterraneo, ci si domanda da tempo come uscire da una condizione emergenziale, consapevoli della necessità di affrontarla anzitutto con un’assunzione di responsabilità collettiva di tutti i paesi dell’Unione europea.
A parte la prima accoglienza e la necessaria accelerazione delle procedure per il riconoscimento o meno dello status di rifugiato, la seconda accoglienza può trovare una soluzione semplice e fattibile rapidamente. Oggi in Italia ci sono quasi centomila imprese sociali: cooperative sociali, associazioni, fondazioni, IPAB. Una buona parte di loro gestisce comunità, case di riposo, gruppi appartamento, case per l’emergenza. C’è motivo di ritenere che abbiano camere e letti non utilizzati e che non si sottrarrebbero a questa semplice proposta: ogni struttura offra disponibilità ad accogliere non più di due immigrati e si impegni (solo qualora venga riconosciuto lo status di rifugiato) a utilizzare le proprie reti di relazioni per l’inserimento sociale e lavorativo.
Tra i vantaggi di una tale “spalmatura” dell’accoglienza, annoto il basso impatto sulla popolazione e un maggior controllo sociale; il possibile impiego degli immigrati come volontari entro quei servizi, anche per meritare i rimborsi dati loro per il mantenimento; il coinvolgimento di volontari del luogo a loro favore; un riscatto di immagine per le imprese sociali, infangate per colpa di pochi; risparmi in termini di costi di accoglienza (non superiori a quelli riconosciuti oggi per l’ospitalità in alberghi) e di costi di polizia.
Per organizzare tutto ciò non serve una grande organizzazione; bastano una task force interministeriale, un decreto apposito e veloci accordi con le maggiori reti di gestione. Gli hub regionali per la prima accoglienza a cui si pensa (in particolare le caserme dismesse) possono servire, ma solo per la prima fase. Poi occorre lo smistamento, diversamente quei grandi centri di accoglienza si riempiono e si trasformano in polveriere. Ma questo esito forse si può evitare.
Leggi il mio intervento su La Stampa del 17 luglio 2015
Stefano Lepri