Tutti i commenti sul risultato di Torino hanno evidenziato come la città sia stata comunque ben governata. E tuttavia dobbiamo anche riconoscere - se vogliamo essere onesti e non ridurre la verifica a un inutile rito - che ci sono stati alcuni limiti.
Parto da uno di questi, non so se il più importante: è mancata un po’ la dimensione empatica. Per esempio, convincerci che ci avrebbero votato solo in previsione di nuove grandi opere e trasformazioni nelle periferie è stato una leggerezza. Ci voleva più cuore, insomma, mentre si lavorava a testa bassa. La politica è anche saper essere e saper ascoltare. Non solo saper fare. E’ abbracciare e guardare negli occhi, immedesimarsi nei problemi, condividerli. E’ ammettere le difficoltà nel dare risposte, ma almeno spiegarne le ragioni. E’ riconoscere la fatica della vita quotidiana, non solo l’orgoglio delle cose fatte. Si tratta di una critica, intendiamoci, che vale per tutti: sindaco, ma anche assessori, consiglieri, consiglieri regionali, parlamentari. Vale anche come autocritica.
Quando abbiamo fatto campagna nel corso del ballottaggio, abbiamo ascoltato il senso di abbandono denunciato in molte periferie. Bisognava starci di più, prima e con più metodo. Ad esempio, non tagliando i piccoli servizi “leggeri” e di prossimità, finanziati dalle circoscrizioni, che costano poco ma sono molti apprezzati. Oppure organizzando in modo capillare un volontariato civico, specie reclutato tra persone avanti negli anni, per proteggere e manutenere gli spazi pubblici e con il vantaggio di assicurare partecipazione, controllo sociale, protagonismo diffuso. Un’idea non certo nuova e che Fassino aveva lanciato con convinzione per il futuro; ma non si poteva fare prima?
Stefano Lepri