Gli osservatori che descrivono il declino di Torino sono spesso autorevoli. Però talvolta esagerano nel dar colpe a una classe politica considerata non all’altezza. La verità è purtroppo molto più banale. Torino come one company town è raddoppiata negli anni sessanta, settanta e ottanta grazie al boom dell’automobile. Ma oggi nelle fabbriche e negli uffici FCA a Torino lavora un quinto (forse meno) delle persone di allora. Senza contare gli effetti drammatici sull’indotto automotive e sui servizi indirettamente alimentati. Nessuna città del mondo (forse solo Detroit) ha sofferto un così drastico crollo dell’occupazione nel comparto economico trainante. I diritti edificatori derivanti dalla trasformazione urbanistica e le Olimpiadi hanno consentito a Torino di tenere ancora per un po’. Alcuni settori (avio, università, componentistica auto) hanno continuato bene. Altri comparti (turismo e food) sono cresciuti. Ma poi il conto è arrivato, impietoso, aumentato da una gestione amministrativa pubblica degli ultimi quattro anni largamente insufficiente. Ne ho fatto parte e posso dirlo: il centrosinistra torinese per più di un ventennio ha invece fatto bene; comunque, ha fatto il possibile. Non a caso Torino è stata portata per molti anni in giro per il mondo come buona pratica di riconversione delle sue vocazioni produttive. Piuttosto, hanno tradito alcune élite economiche. Che prima hanno attirato centinaia di migliaia di persone in città. Ma che poi, ormai da tempo, hanno tirato i remi in barca e vivono di rendita, anche sulle spalle dei debiti pubblici. Oppure investono in settori protetti, abbandonando le sfide competitive. Insomma, la politica con il declino di Torino c’entra poco. Salvo che di recente. Quindi, per favore, non prendetevela col bersaglio facile.
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