Il programma di Torino della Giunta Appendino, presentato ieri con l’insediamento del Consiglio comunale, non ha suscitato particolari sorprese. Non ci sono voli pindarici, e questo è un bene. Ci sono molte frasi fatte e luoghi comuni, e anche questo si ritrova spesso nei programma di legislatura. Ma, soprattutto, non c’è traccia di una visione che faccia di Torino un luogo di eccellenza, una capitale di una qualche diavolo di cosa.
Intendiamoci, ho criticato, come altri, la nostra campagna elettorale e l’idea chiave prospettata, perché a forza di orgoglio e di splendore si è contribuito a far perdere le elezioni. Ma ora siamo all’opposto: il futuro è il “piccolo è bello”, gli orti urbani e gli alberi da frutto, il bike sharing nelle università, il mix sociale per tutti, le olimpiadi dei rifiuti, il giardinetto di cortile. Io a queste cose ci credo: sono importanti per la coesione sociale, per evitare l’alienazione da lavoro, la ricerca della fiction come diversivo e le varie dipendenze (anche quelle, recenti e pericolose, dei giochi d’azzardo e dell’abuso dei social). E tuttavia Torino con questo non ci campa, al massimo sopravvive.
La nostra città ha saputo, da un secolo e mezzo, portare innovazione in vari comparti, far crescere competenze tecnologiche, potenziare e rendere accessibile il sapere universitario, trovare nuovi mercati di sbocco dei suoi prodotti. Nel programma di Appendino tutto questo onestamente non si nega, ma di certo non è centrale.
Insomma: bene quel di più di socialità e di convivialità che serve per tenere viva una comunità grande come quella torinese. Male invece l’assenza di visione alta, il sospetto verso ogni forma di eccellenza e l’idolatra del (pur talvolta sacrosanto) kilometro zero.
La dico tutta: a forza di insistere sul giardinetto, Torino rischia di mettere la vestaglia.
Stefano Lepri